La “tolleranza” (tolleranza e non semplice sopportazione) è accettazione delle diversità. Dio ha voluto e ama le diversità. Un quadro è fatto di colori diversi, una musica è fatta di note diverse, il mondo è fatto di popoli diversi e di lingue diverse.
L’Eucaristia è il banchetto di Dio che accoglie tutte le diversità. Lo stesso Pane e la stessa Parola vengono offerti a tutti, indipendentemente dalla lingua e dalla cultura. Le contrapposizioni che devastano la vita dell’umanità scompaiono davanti al grande dono che il Signore ci fa di se stesso nell’Eucaristia.
Dio ha creato la terra e l’ha data all’uomo; gli uomini hanno creato i confini (degli stati, delle proprietà, dei possedimenti…). Dio ha creato uomini e donne, figli e figlie; noi abbiamo creato le differenze (razze, categorie, livelli, club esclusivi, i vicini e i lontani…). Dio ha creato i beni; noi abbiamo creato i proprietari; abbiamo stabilito le differenze tra ricchi e poveri, tra sfruttati e sfruttatori… Dio è unità noi abbiamo creato le differenze, le distanze, le contrapposizioni. Dio che è creatore e padre di tutti rifiuta questa divisione scavate dall’orgoglio, dall’egoismo e, a volte, sostenute anche dalle religioni.
Così già nell’antico Israele. Nonostante le bellissime pagine della Bibbia sulla creazione, gli Israeliti fecero molta fatica ad accettare la diversità degli altri, ad apprezzarla e convivere con essa. Con l’aiuto del profeta Isaia proviamo a vedere come sono nate e come si sono radicate fra loro certe rigide classificazioni.
La paura di perdere la propria identità nazionale e religiosa aveva indotto Israele, piccolo popolo nel grande scacchiere del Medio Oriente, a isolarsi dagli altri popoli e a darsi norme restrittive nei confronti degli stranieri. Il libro del Deuteronomio, ad esempio, ordinava: «Non farai alleanza con gli stranieri, né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire il Signore, per farli servire a dèi stranieri» (Dt 7,2-4).
Poi era venuta l’esperienza della deportazione a Babilonia; un’esperienza amara, ma preziosa, dalla quale gli Israeliti uscirono maturati. Non tutti i mali vengono per nuocere. Costretti a confrontarsi con la cultura degli altri popoli, corressero i propri pregiudizi e si resero conto che molte loro paure erano immotivate; i pagani non erano costituzionalmente malvagi e perversi, ma coltivavano anche sentimenti nobili e davano prova di una morale molto elevata. Finirono per assimilare una mentalità universalistica, ma non tutti. Le guide politiche e spirituali continuavano ad alimentare diffidenze, sospetti, ostilità nei confronti di quelli che non erano della loro razza. Avevano paura di scomparire nella varietà degli altri popoli; non avevano capito che la missione che Dio aveva loro affidata li avrebbe sempre caratterizzati e resi unici anche tra tutti i popoli.
Raccontavano i rabbini che un agricoltore aveva piantato nel suo campo ogni sorta di alberi e li aveva coltivati con cura. Aspettò molte primavere e molte estati, ma rimase deluso: tante foglie, qualche fiore, ma nessun frutto. Stava per appiccare il fuoco al campo quando, su un ramo un po’ discosto, vide un melagrana. La colse e la assaggiò: era deliziosa. “Per amore di questo melograno – esclamò felice – lascerò vivere tutti gli altri alberi del mio giardino”. Similmente – concludevano i rabbini – per amore di Israele Dio salverà il mondo.
Non tutti i giudei però condividevano l’apertura mentale di questi rabbini illuminati. Molti ritenevano che Dio intendesse salvare solo gli Israeliti, il popolo eletto.
Il profeta Isaia nel brano che abbiamo ascoltato prospettava un incontro festoso tra tutti i popoli che non saranno più degli “stranieri”. La promessa era questa: “Verrà il giorno in cui gli stranieri che onorano il Signore e mettono in pratica i suoi comandamenti saranno accompagnati fino al suo tempio ove offriranno sacrifici e innalzeranno preghiere. Nella casa di Dio nessuno più sarà considerato straniero. Il tempio, il luogo santo per eccellenza di Israele, diverrà casa di preghiera per tutti i popoli.
Anche i primi cristiani (che erano poi dei giudei convertiti) si chiedevano: la salvezza è destinata a tutti i popoli o è riservata ai figli di Abramo? Questo causò dissensi, dissapori, aspri conflitti che divisero la chiesa appena nata. Alcuni sostenevano che il vangelo doveva essere annunciato solo agli israeliti e, per avvalorare la loro tesi, si richiamavano all’esempio di Gesù che, durante la sua vita pubblica, aveva svolto la sua missione entro i confini della Palestina; ricordavano anche la sua raccomandazione: «Non andate fra i pagani, non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute del popolo d’Israele» (Mt 10,5-6). Altri erano più aperti, convinti che, sì, il vangelo doveva essere predicato anzitutto agli israeliti – primi destinatari della salvezza (Mt 22,1-6) – ma poi anche i pagani dovevano essere ammessi nella sala del banchetto del regno di Dio (Mt 22,8-10).
L’episodio del Vangelo richiama un episodio della vita di Gesù con cui ci viene detto l’apertura della mente e del cuore del Maestro anche ai pagani. Un giorno si presenta a Gesù una straniera. Viene dalle regioni di Tiro e Sidone e «continua a gridare» (si noti l’insistenza della sua preghiera), implorando la guarigione di sua figlia. Il testo la chiama “cananea”, appartiene dunque ad un popolo pagano.
I discepoli di Gesù – israeliti educati nel più rigoroso integralismo religioso – non possono che rimanere sorpresi di fronte alla sfrontatezza di questa pagana invadente che osa rivolgersi al loro Maestro e attendono la sua reazione: si atterrà alle norme vigenti che proibiscono di intrattenersi con straniere o – come spesso ha fatto – romperà gli schemi tradizionali?
L’evangelista riferisce il dialogo fra Gesù e la donna. Di fronte alla richiesta di aiuto di lei, egli assume un atteggiamento sprezzante: non la degna di uno sguardo, non le rivolge nemmeno la parola. Intervengono allora gli apostoli che vogliono risolvere al più presto la situazione che rischia di divenire imbarazzante. Gli chiedono di allontanarla. «Esaudiscila!» dicono, ma non è una traduzione corretta. «Mandala via!» è la loro richiesta.
Gesù sembra seguire il loro consiglio, diviene più severo e spiega: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Solo con gli Israeliti però il Signore ha preso impegni, è solo di loro che si deve interessare. La donna capisce; sa di non essere del popolo eletto e di non avere alcun diritto alla salvezza, tuttavia confida nella benevolenza e nella gratuità, si prostra davanti a Gesù e implora: «Signore, aiutami!»
Come risposta riceve un’offesa: «Non è bene prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini!» Gli israeliti sono il gregge, i pagani sono i cani. L’uso del diminutivo attenua, ma non di molto, l’asprezza dell’insulto. “Cane” era, in tutto il Medio Oriente antico, la più pesante delle ingiurie, era il nomignolo con cui gli ebrei designavano i pagani. Sulla bocca di Gesù questa espressione sorprende, soprattutto se si tiene conto del fatto che la donna cananea si è rivolta a lui con grande rispetto: per tre volte lo ha chiamato “Signore” – titolo con cui i cristiani professavano la loro fede nel Risorto – e una volta “Figlio di Davide” che equivale a riconoscerlo come messia. Sembra che, come tutti i suoi connazionali, anch’egli abbia in abominio gli stranieri. Ma è così?
La conclusione del racconto ci illumina ci dice com’è veramente il cuore di Cristo: «Donna davvero grande è la tua fede!». Un elogio che non è mai stato rivolto a nessun israelita.
Il messaggio è quanto mai attuale anche per noi discepoli del Signore oggi: è finito il tempo delle discriminazioni, delle esclusioni. Dio, che è padre, non le sopporta; lo offendono. Di fronte all’Eucaristia ogni forma di esclusione, di emarginazione, di divisione… deve cadere. Non si può andare all’Eucaristia e coltivare nell’animo sentimenti di esclusione, di disprezzo degli altri, di emarginazione. Dio ama tutti e noi siamo chiamati ad essere segno di questo amore presso gli altri.
Imparare ad amare
Un uomo, che si sentiva orgoglioso del verde tappeto del suo giardino, un brutto giorno scoprì che il suo bel prato era infestato da una grande quantità di “denti di leone”. Cercò con tutti i mezzi di liberarsene, ma non poté impedire che divenissero una vera piaga.
Alla fine si decise di scrivere al ministero dell’Agricoltura, riferendo tutti gli sforzi che aveva fatto, e concluse la lettera chiedendo: “Che cosa posso fare?”.
Giunse la risposta: “Le suggeriamo d’imparare ad amarli”.
È un grave errore per una persona non accettare gli avvenimenti, non amare tutto ciò che c’è nel suo giardino. Se non si può averla vinta con tanti “denti di leone” che esistono, è necessario apprendere una nuova tecnica: quella dell’amore. Imparare ad amare non è per nulla facile, poiché bisogna perdere, impiegare molto tempo per ascoltare gli altri: piante, animali, persone.