Noi siamo tutte brave persone e il Signore ci deve lodare. Ma il Signore potrebbe risponderci: “Io ho già fatto gli angeli che non fanno mai peccati e potevo fare delle persone brave e conservarle sotto una campana di vetro o in naftalina. Il signore non ci ha creati per questo ma per lavorare con lui alla costruzione di un mondo più bello che si chiama “Regno di Dio”. Non ci ha creati solo per evitare i peccati, ma soprattutto per fare il bene. Esistono anche i peccati di omissione.
Da oltre 50 anni io confesso; le persone che si sono accusate di omissioni credo di poterle contare sulle dita di una mano. Le omissioni non sono cattiverie, sono pigrizia, disimpegno, assuefazione… Il nostro Battesimo non ci chiede solo un’offerta per le necessità del momento, ma di farci coinvolgere nei problemi che assillano la nostra vita sociale ogni giorno: brutte abitudini sociali, trascuratezza dell’ambiente, ingiustizie nei confronti dei più deboli … responsabilità nelle scelte politiche.
Gesù ha vissuto la sua vita sociale con molto senso di responsabilità e con molto coraggio. Per circa 25 anni ha lavorato con le sue mani e per mantenersi e aiutare la famiglia. Questo lo facciamo anche noi; ma è andato molto oltre come cittadina della Palestina. Parlando aveva raccomandato di essere «prudenti come i serpenti»; questa prudenza egli non usò di fronte ai problemi del suo ambiente. Diremmo: Non è stato molto prudente: ha pronunciato invettive contro scribi e farisei (guide spirituali del popolo) e ironizzato sul loro modo di comportarsi in pubblico e di vestirsi, definendo “ipocriti”, cioè “attori” e definendoli “razza di vipere”; si è messo contro i sadducei, che erano una potenza politica, sconfessando le loro convinzioni teologiche; ha chiamato Erode “volpe” (debosciato) e ha lanciato frecciate ai benestanti che, “avvolti in morbide vesti”, vivono in sontuosi palazzi. Frequentava gente che tutti evitavano come impura (Mt 23,33) e asseriva che i pubblicani e le prostitute (la feccia sociale) li avrebbero preceduti nel regno dei cieli (Mt 21,31) … Lo sapeva che alla fine avrebbe pagato il conto per questi suoi atteggiamenti, ma questo non lo ha frenato.
Nella comunità di Tessalonica, qualche decennio dopo la risurrezione, c’erano tensioni e inquietudini perché, fraintendendo alcune parole del Maestro, si era diffusa la convinzione che la fine del mondo e il ritorno del Signore fossero imminenti e che il Signore stava per tornare e avrebbe portato con sé tutti i suoi fedeli. Questo aveva portato molti a incrociare le braccia di fronte ai problemi della vita sociale, a non preoccuparsi di quello che succedeva, “Tanto tutto sta per finire!” dicevano.
Per scuotere l’inerzia dei suoi cristiani di allora e di tutti i tempi l’evangelista Matteo si rifà a una parabola di Gesù, quella dei talenti, molto provocatoria al riguardo, anche per noi oggi. Nella parabola che cosa intende Gesù per talenti?
Non sono solo le doti personali che ci vengono per eredità genetica, per l’educazione avuta e per l’ambiente in cui siamo vissuti. Sono una ricchezza personale che andrebbe conosciuta e goduta e fatta fruttare (oggi sono è super quotate l’intelligenza, l’abilità artistica o atletica, meno le altre doti umane come simpatia, sensibilità, socievolezza, solidarietà …che renderebbero la vita più umana). Il Maestro, però, intendeva qualcosa d’altro parlando di talenti. Si riferiva al patrimonio che egli aveva consegnato alla sua Chiesa: il Vangelo, cioè il messaggio di salvezza destinato a trasformare il mondo e a creare un’umanità nuova; il suo Spirito “che rinnova la faccia della terra” (Sal 104,30) e anche sé stesso nei sacramenti, il suo potere di curare, di consolare, di perdonare, di riconciliare con Dio.
I tre servi della parabola rappresentano i membri delle comunità cristiane. A ciascuno di loro è affidato l’incarico di diffondere la ricchezza che ci è stata data, affinché il sogno di Dio per l’umanità si realizzi. Matteo vuole stimolare le sue comunità ad una verifica. Le invita a chiedersi anzitutto se sono coscienti del tesoro che hanno in mano, a controllare se tutti i “talenti” sono impiegati al meglio o se qualche dono è stato nascosto sotterra.
Nella terza parte della parabola assistiamo alla resa dei conti, che non il giudizio finale, bensì la diagnosi che Dio ci offre ogni momento perché non buttiamo via il tempo e le energie per cose inutili. La scena, inizialmente tranquilla e serena, diviene poi cupa e – come spesso accade nel vangelo di Matteo – si conclude in modo drammatico. Vediamola. Si presentano i primi due servi che, con giustificato orgoglio, dichiarano al padrone di avere raddoppiato i suoi averi. La ricompensa che ricevono è “la gioia del loro Signore”, la felicità che deriva dall’essere in sintonia con Dio e il suo progetto.
Poi compare colui che, pur non essendo il protagonista, risulta essere il personaggio principale della parabola, il terzo servo. «So – dice al padrone – che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo». L’immagine che questo servo si è fatta del padrone rappresenta da sola un serio problema. Il padrone non la considerato un incapace, avendogli dato un solo un talento,se teniamo presente che, a quei tempi, un talento era una somma di tutto rispetto e corrispondeva allo stipendio di circa vent’anni di lavoro di un operaio.
Nel rimprovero che il padrone rivolge al servo infingardo si trova il messaggio centrale della parabola: l’unico atteggiamento inaccettabile e dannoso è il disimpegno, è la paura di rischiare. Anche ai primi due, forse, non tutte le operazioni economiche erano riuscite bene, tuttavia viene condannato solo chi si è fatto bloccare dalla paura.
Nei tempi passati si era insistito tanto per salvare la propria anima. Così ci anno insegnato, così abbiamo pregato … Non è una cosa cattiva, ma non è sufficiente. Nel Padrenostro noi non chiediamo “Dammi il mio pane quotidiano … rimetti i miei peccati … non abbandonarci nella tentazione … liberi dal Maligno. Alla luce del Vangelo non possiamo più vedere le cose in questo modo. Il nostro impegno è costruire una umanità nuova, quella che Gesù chiamava “il Regno di Dio”. Dobbiamo salvarci insieme, perché Dio ci chiederà, come a Caino “Dov’è tuo fratello … i tuoi fratelli”. Dobbiamo rivedere l’idea che ci siamo fatti di noi stessi e dell’umanità con cui camminiamo.
L’aquila che si credeva un pollo
Un uomo trovò un uovo d’aquila e lo mise nel nido di una chioccia. L’uovo si schiuse contemporaneamente a quelli della covata e l’aquilotto crebbe insieme ai pulcini.
Per tutta la vita l’aquilotto fece quel che facevano i polli nel cortile, pensando di essere uno di loro. Frugava il terreno in cerca di vermi e insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro. Trascorsero gli anni e l’aquila divenne molto vecchia.
Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d’aria, muovendo appena le robuste ali dorate.
La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita. “Chi è quello?”, chiese. “E’ l’aquila, il re degli uccelli”, rispose il suo vicino. “Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli”.
E così l’aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale. (Anthony de Mello)
Siamo aquile: la nostra codardia non ci faccia vivere da polli; noi siamo fatti per cieli altissimi.