La festa di Cristo Re chiude un percorso che è durato un anno. Che cosa ci è rimasto? Che cosa ci ricordiamo? Abbiamo sentito messaggi bellissimi, proposte straordinarie e adesso dovremmo verificare che cosa è cambiato in noi.

“Capire” significa scoprire quello che il Signore ha fatto per noi. È la prima e la più importante delle conclusioni. La parola “re” è la prima che dovremo capire, liberare agli equivoci che contiene. La regalità di Cristo non è un potere accanto a tanti altri che già conosciamo, ma è l’esito a cui Dio sta conducendo il cammino di tutti gli uomini e dei popoli. L’eucaristia è il risultato e l’icona della sua regalità.

Dobbiamo chiarire alcune parole che usiamo spesso ma di cui non conosciamo il valore: re, regno di Dio, regalità di Dio. Cominciamo con una premessa storica: la fine del regno di Israele che era il grande sogno che gli Ebrei aspettavano che Dio realizzasse per loro.

Siamo verso il 590 avanti Cristo. Gerusalemme è assediata dall’esercito babilonese. Dopo un duro assedio la città è presa. Rase al suolo le mura, distrutto il tempio, annientata la famiglia reale.  A Israele non è rimasto più nulla. Il tesoro del tempio viene portato a Babilonia assieme alla parte più significativa della popolazione (letterati, artisti, tecnici …). Di Israele non rimane più nulla.

I più saggi di loro, nelle lunghe sere di solitudine capiranno che questo è avvenuto perché Israele non ha ascoltato le parole del Signore, soprattutto non le hanno ascoltate i loro capi.

È in questo momento triste che il profeta Ezechiele pronuncia il suo messaggio. Ripensando alle disavventure che hanno colpito il suo popolo, egli paragona gli Israeliti ad un gregge di pecore sbandate e senza pastore ed annuncia un messaggio di salvezza. Dio non si impegna a inviare qualcuno che li salvi (chiunque fosse scelto tra loro non sarebbe migliore di quei “pastori” che hanno condotto il popolo alla rovina), ma dice che egli stesso si occuperà delle sue pecore, le radunerà da tutti i luoghi dove sono state disperse e le ricondurrà sui pascoli dei monti d’Israele.

L’ultima frase della lettura ci lascia sconcertati: «Io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri». Non si tratta certo di un «processo» che non avrebbe senso con delle pecore; si tratta di un «discernimento» e di una illuminazione.

Fatta questa premessa, il Vangelo parla di giudizio … di pecore e di capri … Cerchiamo di cogliere il messaggio. La prima cosa che ci colpisce è un’espressione che non ci aspetteremmo sulle labbra di Gesù: «Lontano da me maledetti nel fuoco eterno, preparato per il diavolo…». Sono queste le parole più terribili che troviamo nel Vangelo e non sono le uniche. Matteo ne ricorda altre: «Non vi conosco! Allontanatevi da me operatori di iniquità!» (Mt 8,12); «Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,41-42.51).

Queste frasi sono servite spesso solo per creare angoscia nelle persone più fragili e il giudizio di Dio ha finito per diventare una drammatica “resa dei conti” e non un incontro con il Padre da cui tutto è cominciato. Di fronte a colui che «scopre dei difetti anche nei suoi angeli» (Gb 4,18) chi potrebbe sentirsi al sicuro? Molti cristiani considerano già una grande fortuna potersi prendere qualche anno di purgatorio. E la pagina del Vangelo di oggi sembra dar regione alle nostre paure. Eppure “Vangelo” significa “bella notizia”; ma in quale senso allora è “bella notizia”?

Faremmo fatica anche a mettere d’accordo il Dio severo di questa pagina del Vangelo con il Padre di cui ci parla tutto il Vangelo, che «fa sorgere il sole e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» e che esige dai suoi figli che non facciano distinzioni fra buoni e cattivi (Mt 5,43-48)? Come può mandare nel fuoco eterno i malvagi ed esigere da noi che amiamo i nostri nemici (Mt 5,44)? Come può Gesù condannare i peccatori quando egli stesso afferma di essere venuto a “cercare ciò che era perduto” (Lc 19,10)? E questo Gesù che non si offendeva se lo chiamavano «l’amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7,34) come potrà un giorno essere contro di loro? Questi alcuni dei problemi che si legge questa pagina senza ambientarla. Per capirla riportiamola all’ambiente in cui è nata. Ci rifacciamo a un’immagine della vita quotidiana di allora. Quale? Vediamola.

Il racconto del “giudizio finale” appartiene al genere letterario detto “scena di giudizio” che si ritrova sia nella Bibbia (Dn 7) e nella letteratura rabbinica. Ma attenzione: quando parlavano di “fuoco della Geenna”, non si riferivano all’inferno, ma alla valle che scorre attorno a Gerusalemme, al luogo dove si bruciavano i rifiuti della città. Bruciavano tutto il ciarpame e lasciavano le cose solide. E l’aggettivo “eterno” non aveva i connotati filosofici che ha assunto da noi oggi, era usato in un’accezione popolare piuttosto generica, significava semplicemente “lungo”, “indefinito”.

L’insegnamento centrale del racconto è legato al gesto del pastore che separa le pecore dai capri. Era quello che tutti gli ascoltatori di Gesù avevano spesso visto la sera al tramonto. Il pastore rientrava con il gregge e lo portava nel chiuso dove c’erano alcuni pochi ripari di fortuna per il pastore e il gregge.

Il pastore israelita aveva un rapporto affettivo e non solo lavorativo con le sue pecore. Le chiamava per nome, esse conoscevano la sua voce e lo seguivano … quando le sue pecore erano minacciate esponeva la sua vita per salvarle …

A sera questo pastore si metteva all’entrata del recinto e, per usare un’espressione del profeta Ezechiele, «giudicava». Quelle più delicate, quelle che avevano appena partorito, quelle che erano ferite, gli agnellini nati da poco … li metteva a riparo sotto tetto; i capri invece, più robusti e più resistenti, li faceva rimanere all’aperto. Questo era il suo giudizio.

La scena del giudizio finale è una narrazione che ha lo scopo di farci capire quali sono le cose che vanno protette e quelle che non hanno bisogno di protezione; è un invito a schierarci dalla parte dei più deboli.

Anche l’espressione “giudizio finale” andrebbe sostituita con l’altra “il giudizio più alto, più vero”. Che senso ha che Dio ci giudica alla fine quando non c’è più la possibilità di riparare? Dio dà il suo giudizio (il più alto) ora perché noi possiamo ravvederci.

Noi facciamo fatica a sapere quali sono le cose che valgono e varranno sempre; non sappiamo riconoscere facilmente quali sono i titoli sicuri su cui investire il nostro impegno. beni … ma soprattutto ignoriamo il valore delle cose più importanti della vita. Che valore hanno la salute … il lavoro … la stima degli altri … l’amore … l’odio … la fatica … il riposo … la famiglia … la casa … la gioia … il dolore …?

Dio «giudica» nel senso che ci dice, oggi, il vero valore delle cose che facciamo. Per aiutarci a capire egli si identifica con le situazioni di debolezza e di fragilità umana (l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato ed il carcerato …) perché sappiamo da che parte si schiererebbe il Padre.

Dio affida a noi il suo giudizio; ci chiede di giudicare a nome suo e di schierarci per lui dalla parte di chi è debole e sfortunato per fargli sentire la tenerezza del Padre. Dio non piega la caparbietà dei peccatori con minacce e punizioni: la sua vera vittoria è trasformare i suoi nemici in figli. Così giudica Dio e così chiede a noi di giudicare.

Lo scopo della parabola

A questo punto non è difficile capire qual è l’insegnamento dei Gesù. Cosa vuole insegnare il Maestro ai suoi discepoli? Non vuole certo minacciarli annunciando loro «la fine» del mondo, ma piuttosto vuole svelare loro «il fine» del mondo, della vita, della storia.

Noi abbiamo una vita sola ed è preziosa. Sarebbe un vero disastro sprecarla o sottovalutarla aspettando quello che succederà dopo. Come fare per viverla in un modo vero, pieno? L’uomo ha inventato un suo modo per vivere bene (ricorda le «beatitudini» del regno dell’uomo: beati quelli che hanno, quelli che possono, quelli che sono fortunati, ecc …), Gesù ha inaugurato un nuovo modo di vivere (il regno di Dio) ci ha insegnato e ci ha dato l’esempio per come vivere bene la nostra vita. Gesù ha sempre rifiutato di essere acclamato re fino al giorno in cui è stato arrestato: alloro si è proclamato re. La sua «ora» per usare il termine che gli era caro, non era quella dei miracoli o degli “osanna”, ma quando crocifisso e innalzato avrebbe attirato tutti a sé. I valori autentici suggeriti da Gesù sono diversi da quelli per i quali la maggioranza degli uomini perde la testa; sono quelli che contano agli occhi di Dio.

Riflettiamo un momento: chi è considerato “persona di successo” nella nostra società? Qual è l’ideale di uomo proposto dalla nostra cultura? Chi esaltano i mass-media? La persona colta, colui che detiene il potere, il ricco, il furbo, colui che può permettersi ogni genere di piaceri. Il valore più alto, secondo il modo di pensare di Dio, è schierarsi dalla parte dei più deboli e dedicare ad essi premure ed energie.

E la condanna?

La seconda parte della parabola (vv.41-45) – lo abbiamo già sottolineato – non contiene un insegnamento diverso dalla prima. Cosa significa che Dio, questo Padre dolcissimo punirà in modo drammatico i figli che hanno sbagliato? Che li castigherà severamente?

Facciamo un esempio: un ragazzo raggiunta l’età di dodici anni si mette a fumare. I genitori e il suo medico lo rimproverano ma egli non vuole sentire ragioni. Quando arriva a quarantacinque anni comincia a sentire difficoltà di respirazione e va dal medico. Questi lo visita e, scuotendo la testa, esclama: “Ha i polmoni completamente rovinati dal fumo!”. Cosa significa questa frase? È forse la minaccia di un castigo? No, è la constatazione di un fatto. Il medico dichiara ciò che è accaduto, ma le sue parole non vogliono essere una condanna.

Il giudizio pronunciato dal re più che come una condanna va inteso come una un’amara constatazione. È una drammatica denuncia di ciò che non si deve fare oggi se non si vuole rovinare la propria vita. Il Signore constata l’errore, vuole che venga evitato, ma questo non significa che alla fine egli punirà o distruggerà il colpevole.

Per noi è giusto colui che valuta il male commesso e punisce. Completamente diversa è la giustizia di Dio. Egli è giusto perché “giudicando” aiuta chi sbaglia diventare giusto. Questa è l’azione di Dio e l’Eucaristia è la più alta manifestazione della giustizia di Dio che, giudicando, salva.

L’uomo leggero come una piuma  

L’Angelo della Morte bussò un giorno alla casa di un uomo. “Accomodati pure” disse l’uomo. “Ti aspettavo”. “Non sono venuto per fare due chiacchiere” disse l’Angelo, “ma per prenderti la vita”. “E che altro potresti prendermi?” – “Non so. Ma tutti, quando giungo io, vorrebbero che io prendessi qualsiasi cosa, ma non la vita. Sapessi quali offerte mi fanno!”. “Non io. Io non ho nulla da darti. Le gioie che mi sono state donate le ho godute. Mi sono divertito, ma senza fare del divertimento lo scopo della mia vita. Gli affanni, li ho affidati al vento. I problemi, i dubbi, le inquietudini li ho affidati alla provvidenza. Ho utilizzato i beni terreni solo per quanto mi erano necessari, rinunciando al superfluo. Il sorriso, l’ho regalato a quanti me lo chiedevano. Il mio cuore a quanti ho amato e mi hanno amato. La mia anima l’ho affidata a Dio. Prenditi dunque la mia vita, perché non ho altro da offrirti”.

L’Angelo della Morte sollevò l’uomo fra le sue braccia e lo trovò leggero come una piuma. All’uomo la stretta dell’Angelo parve tenerissima. E il Signore spalancò le porte del Paradiso perché stava per entrarvi un santo.