Siamo di fronte all’interrogativo più inquietante che viene posto alla fede in Dio. Ogni sette secondi muore un bambino per malnutrizione; intere popolazioni stanno per essere sterminate dalla fame e dalla sete; innumerevoli guerre devastano il pianeta provocando sofferenze immani e crudeli a persone che non le hanno volute; l’interminabile carovana dei migranti … e, nelle cosiddette popolazioni civili, le violenze sulle donne e sui bambini, i maltrattamenti dei vecchi e dei disabili, le umiliazioni dei più deboli … sono una realtà amara ma reale. Non sarebbe difficile continuare ma forse non aggiungerebbe nulla di più. Oggi possiamo accennare a una pagina tremenda che sta coinvolgendo tutta l’umanità. Migliaia di persone sono state strappate dalle loro famiglie senza nemmeno poter salutare quelli che amavano e hanno chiuso la loro esistenza nella solitudine più triste.

Dio queste cose le vede e se le vede perché non interviene, perché non ci parla per aiutarci a capire? Cerchiamo di vedere quali possono essere le risposte.

Giobbe, l’uomo piegato ma non vinto dal dolore

Nella Bibbia c’è un uomo che ha bevuto fino in fondo al calice dell’amarezza. È arrivato a maledire il giorno della sua nascita. Erra certo che non poteva trattarsi di un castigo, consapevole com’era di aver vissuto e agito correttamente nella sua vita. La domanda che ripeteva ossessivamente a Dio era: “Dimmi perché!”. Nei confronti di Dio il suo era un rapporto forte, passionale. Questo lo aveva spinto ad espressioni forti nel suo dialogo con Dio. Pretese che Dio uscisse allo scoperto e desse ragione del suo operato su quello che gli stava accadendo. Il patriarca, che pure era molto legato a Dio, si era spinto a provocarlo pesantemente perché gli rispondesse: «Tu sei malvagio – gli aveva detto – sei la causa di tutto il male del mondo». Dio non se ne era avuto a male, anzi, più tardi, ebbe a dire: «Ha parlato bene di me il mio servo Giobbe». Ma il patriarca pretendeva che Dio gli desse una spiegazione per quanto lo aveva colpito.

E Dio lo ascoltò. Con pazienza condusse il suo amico, davvero provato da troppe cose ingiusta, a capire che egli stava gestendo miliardi di situazioni che si intrecciavano fra loro, e che Giobbe non poteva pretendere che egli, Dio, estrapolasse il suo problema personale per risolverlo staccato dalle complesse relazioni a cui era legato. Alla fine il patriarca si arrese e disse: «Mi metto una mano sulla bocca. Ho parlato una volta ma non replicherò…» (Gb 40,5).

Anche per noi è spesso difficile capire il senso degli avvenimenti che ci appaiono troppo complessi e magari ingiusti. Ci è necessario ricorrere ad una regia più alta che, spesso, ci sfugge. Dobbiamo imparare a pregare per capire, più che pregare per avere l’intervento risolutore.

Abbiamo un esempio classico nella tragica fine di Gesù. Il processo e la morte che ha subito è sta una pagina oscura della nostra storia, una nefandezza. Solo in seguito, con la luce dello Spirito abbiamo capito che senza quella morte noi non avremmo avuto un futuro. Quella morte era stata un grande dono per noi.

Perché Dio non ci aiuta a capire?

In questi terribili giorni molti si pongono la domanda sul “silenzio di Dio” sulla sua apparente assenza. La crisi drammatica che stiamo vivendo, forse la più grave dopo il secondo conflitto mondiale, pone una questione inquietante: Dov’è Dio? Perché non parla? Perché non interviene? Papa Francesco è andato a piedi alla Chiesa di san Lorenzo a pregare Dio per la situazione, l’arcivescovo di Milano è salito sul tetto del duomo per essere vicino alla Madonnina e pregarla … ma pensiamo anche ai fiumi di preghiere, ai cori di invocazioni… perché Dio non ha dato segni di aver sentito? Non ha dato segni o noi non abbiamo capito i segni che ci ha mandato?

Il vescovo di Novara, mons. Giulio Brambilla, noto teologo, fa questa osservazione: “Dobbiamo riconoscere che nel momento del benessere e dell’opulenza non ci siamo messi in questione, non abbiamo “lasciato parlare Dio”. (…) la globalizzazione ci ha illuso che potessimo dominare il mondo, con una comunicazione istantanea, con le infinite possibilità della scienza e della tecnica, con la facilità degli scambi sociali, con il dominio sconsiderato sulla natura e le meravigliose conquiste del turboconsumismo. Da questo mondo Dio sembrava sparito, perché semplicemente non c’era spazio per lui, non se ne sentiva il bisogno. La sua assenza non ci faceva problema, sembrava inopportuno addirittura chiamarlo in causa. Nel tempo del benessere e del godimento, potevamo benissimo farne a meno. Soprattutto la sua Parola ci sembrava così gratuita da essere superflua”.

Non è lui che ha chiuso la comunicazione, siamo noi che abbiamo chiuso l’audio. Lui può parlarci e vorrebbe farlo, ma noi non abbiamo più la lunghezza d’onda per sentirlo. Questo è il primo elemento da rivedere per il silenzio di Dio.

Una seconda cosa potrebbe essere questa: riprendendo l’osservazione del vescovo Brambilla potremmo ripensare alla nostra corsa folle sulle piste del benessere. Cosa stava accadendo all’umanità (parlo dell’umanità del benessere, perché l’altra non aveva perso il contatto con Dio)? Cosa poteva fare Dio per fermarci? Questo è un punto da considerare. Mi spiego con un episodio, riportato, in una sua conversazione, da p. Raniero Cantalamessa: Un pittore stava facendo un dipinto nella cattedrale di Londra. Gli stava riuscendo bene e ne era compiaciuto. Per contemplare l’opera aveva fatto alcuni passi in dietro sull’impalcatura. Stava rischiando di cadere nel vuoto, quando un discepolo, spaventato, pensò di intervenire. Non gridò perché questo avrebbe accelerato il rischio; prese invece un pennello lo intinse nel colore e lo scaraventò sulla tela. Il pittore si buttò in avanti per proteggere il suo lavoro. Dovette riparare il danno, ma ebbe salva la vita.

Una cosa analoga fu il Diluvio universale di cui parla la Bibbia. Il degrado a cui era giunta l’umanità rischiava di metterne in crisi l’esistenza stessa. Dio permise il disastro, con le conseguenze dolorose che comportava, per salvare l’umanità e farla ripartire da un ceppo sano, la famiglia di Noè. Il chirurgo per salvare l’intero organismo interviene e rimuove la parte malata.

Il senso delle nostre sofferenze

A questo punto proviamo a interrogarci sul rapporto che abbiamo con la sofferenza che ci affligge. Non preoccupiamoci della nostra reazione in prima battuta: è spiegabile e comprensibile. Domandiamoci invece in quale direzione cerchiamo una spiegazione. Abbiamo mai provato a trovarci accanto ad una persona amica colpita da una grave prova (una morte, una malattia grave, ecc.)? Se non ha un riferimento a motivi più alti, a che cosa possiamo agganciarci per consolarla? Le nostre parole di conforto suonano come un placebo che non aprono a nessuna speranza vera.

Dai vicoli ciechi del dolore nascono i più gravi interrogativi della vita, che ci avvicinano molto alla sindrome di Giobbe: perché questo? A che serve? Chi lo ha voluto? Come superarlo? Il nostro problema a questo punto è trovare una “risposta”, un “perché” a quello che stiamo vivendo. Escludiamo subito l’idea di castigo o di sofferenza voluta da Dio. A lui invece ci rivolgiamo perché ci aiuti a trovare un perché convincente.

Le risposte che possiamo dare noi con la nostra ragione hanno, comunque, grossi limiti. I risultati che otteniamo nella lotta contro la sofferenza sono sempre parziali e non sappiamo nemmeno se siano un vero bene per noi oppure no. Allora ci rimane una strada che Dio stesso ci ha aperto, Gesù di Nazareth.

Gesù non ha mai cercato la sofferenza né l’ha mai evitata, le ha dato un senso; non ha mai fatto discorsi teorici sul dolore: lo ha combattuto dove era possibile, lo ha illuminato con il suo messaggio e infine lo ha vissuto per un ideale altissimo: la realizzazione del disegno del Padre per l’umanità. A questo ha orientato la sua vita. È lui l’uomo ideale a cui fare riferimento. Non ha cercato la sofferenza e non l’ha esaltata: l’ha interpretata.

Dio è il “regista” della nostra storia e di tutta la storia umana; solo lui conosce il senso di quello che avviene e conosce tutta la sequenza della vicenda. La preghiera è il modo non per rimuovere la prova, ma per avere la forza di non uscire sconfitti dalla prova.

Rimuoviamo subito l’illusione che con la preghiera convinceremo Dio a cambiare le cose che ci fanno problema. Se le cose dovessero essere cambiate Dio l’avrebbe già fatto. La preghiera non cambia le decisioni di Dio, mette noi in sintonia con i suoi progetti. La sofferenza, il dolore sono una realtà universale. Nessuno è esentato. Cristo, nel momento del suo dolore, è arrivato a dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Questo fa pensare.

Se a qualcuno viene offerto un bicchiere di liquore da una persona che non conosce bene, potrebbe pensare: “Magari è drogato o avvelenato”. La prova che ci potrebbe convincere è che lui ne assaggi per primo. Questo è avvenuto: se il Figlio, Gesù, ha bevuto alla coppa amara del dolore, significa che il dolore non va rifiutato. Gli antidolorifici sono una conquista dei nostri tempi, servono a placare il male fisico ma non rispondono al dolore profondo che invece ha una forza straordinaria. I Capolavori dell’arte, le grandi scoperte scientifiche, i gesti dell’amore e della dedizione (e sono degli autentici capolavori di umanità) nascono da personalità forgiate dal dolore.

Possiamo ricordare l’ingenuo tentativo di un uomo che, passeggiando in campagna, aveva visto che da una larva stava uscendo faticosamente una farfalla. Impressionato dal lungo tempo che impiegava e dall’evidente fatica della farfalla che stava nascendo, volle venirle in aiuto: con una lama aprì la larva e la farfalla nacque immediatamente … senza ali, perché lo sfregamento sui bordi della larva avrebbero stimolato il formarsi delle ali.

Non posso non accennare ad una creatura che tutti conosciamo e che ha fatto esperienza profonda del dolore, Maria di Nazareth.

MARIA DI NAZARETH

L’angelo l’aveva salutata con le parole: “Gioisci (non “Ave”), Maria …”. Di che cosa potesse gioire lo lascio dire e voi. Nulla è andato nella direzione che lei, creatura umana sensibile, avrebbe pensato. Nessun miracolo per sostenere la sua fede. Molte volte si è trovata di fronte a cose che non capiva (lo dice il Vangelo) e si è “fidata” … fino alla tragica morte di quel figlio che le era stato annunciato come “colui che avrebbe regnato per sempre”. Ha creduto senza obbiettare, anche se le vicende che la coinvolgevano mettevano a dura prova la sua fede nelle promesse di Jhwh. Quella che noi chiamiamo la sua “Assunzione” probabilmente non è consistita in altro che “chiudere gli occhi su questa realtà apparentemente contraddittoria e riaprirli sulla esaltante constatazione che tutto ciò in cui aveva creduto era vero”. È entrata nella gloria di Dio.

I santi, nostri fratelli nella fede hanno fatto, sia pure in misura diversa, questo stesso percorso della fede che ha percorso Maria e che è proposto ad ogni credente.

I Vangeli raccontano che Gesù prima di morire grida due volte. È il grido del giusto, di ogni giusto, che muore ingiustamente. Gesù li riassume tutti: dal grido di Abele ucciso dal fratello fino all’ultima vittima della violenza insensata dell’uomo. Non dimentichiamo che, con quel grido, ha voluto interpretare anche il nostro grido.

Il dolore non è un incidente di percorso, un’anomalia … è un percorso necessario per ciascuno, che il Padre, grande regista, è disposto ad accompagnare chi vuol essere accompagnato.

IL RICAMO DI DIO

Un racconto ingenuo ma che ci può aiutare ad aspettare che il disegno di Dio si riveli

Quando io ero piccolo mia madre era solita ricamare. Io mi sedevo vicino a lei e le chiedevo cosa stesse facendo. Lei mi rispondeva che stava ricamando. Piccolo com’ero e accoccolato sul pavimento, guardavo il lavoro da sotto in su e non riuscivo a capire che cosa stesse facendo: tutto mi sembrava molto confuso. Mi domandavo che a che cosa servissero quei fili coloraci che si intrecciavano in modo strano. Lei mi sorrideva, mi guardava e mi diceva: “Figlio mio, vai fuori a giocare un po’ e quando avrò terminato il lavoro ti chiamerò e te lo mostrerò “. Passato un po’ di tempo mi chiamò, mi fece sedere in grembo e mi mostrò il lavoro. Ero sorpreso ed emozionato al vedere i bei fiori o il bel tramonto nel ricamo. Non riuscivo a crederci perché visto da sotto era così confuso.

Allora mia madre mi diceva: “Figlio mio, di sotto si vedeva confuso e disordinato, ma non ti rendevi conto che di sopra c’era un disegno e io lo stavo solo seguendo. Adesso guardalo dalla mia posizione e saprai ciò che stavo facendo”.