Secondo Gesù il primo che si è fatto prossimo è stato Dio. Sotto le sembianze del Samaritano si è fatto incontro ad ogni smarrito, tradito nelle speranze, abbandonato ai margini della strada e ha lasciato questo come compito ai discepoli…

Chi è il mio prossimo?

Prossimità, vicinanza … essere prossimi, essere vicini … esserci … sono le parole che esprimono un desiderio umano universale e profondo. Essere vicini può significare essere accanto (vicini fisicamente) o essere in relazione anche se non vicini. I nostri media (radio, tv, giornali, cellulari…) invece di avvicinarci sembrano fissarci nella lontananza. Prossimità significa avere premura.

Le distanze fisiche, anche le più gradi, si possono superare, quelle morali invece spesso resistono ai tentativi di superamento. È strano ma non di rado i meno prossimi a noi stessi siamo noi stessi: non accettiamo i limiti e non valorizziamo le potenzialità.

Il dodicesimo cammello

Un cammelliere, proprietario di undici cammelli, dispone nel testamento, la divisione dei suoi beni tra i tre figli: al primo la metà, un quarto al secondo, un sesto al terzo. Dopo la sua morte, nella divisione, cominciano i problemi. La metà dei dodici cammelli è un valore indivisibile (sarebbero 5 cannelli e mezzo). Il primogenito pensa allora di arrotondare e chiede un sesto cammello. I fratelli si oppongono. Di qui un insolubile conflitto.

Un giorno un cammelliere amico, passando da quelle parti e vedendo la situazione di tensione, decide di dare loro in suo unico cammello, rendendo così divisibile la proprietà. Così al primo andarono i 6 cammelli pattuiti, al secondo tre cammelli e al terzo due cammelli. Tutti si trovarono d’accordo, ma il totale è esattamente di undici cammelli e il donatore poté riprendersi il suo cammello. Il dono del cammelliere aveva risolto il problema senza privare il donatore del suo cammello.

Probabilmente il dono che il volontario (come il cammelliere) fa, non lo priva di qualcosa, ma permette a chi lo riceve di avere quello di cui ha bisogno.

ESSERE PROSSIMO PER CHI?

C’è tanta solitudine nel mondo; sulle strade dell’umanità ci sono tanti smarriti, delusi, sconfortati, disperati … che attendono una mano per rialzarsi. L’Antico Testamento ha un’espressione classica a questo riguardo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). Gesù, in un suo intervento si è identificato con tutte le situazioni di disagio umano (Mt 25, 35ss.): «Avevo fame … avevo sete … ero senza casa … ero nudo … malato … carcerato …», facendone l’elemento base del giudizio finale e san Giovanni Crisostomo, ne tira la conclusione con queste parole: “Niente può renderti imitatore di Cristo, come il prenderti cura del prossimo. Anche se tu digiunassi e dormissi per terra, ma poi non ti prendi cura del prossimo, tu non hai fatto niente di grande e resti lontano dal Modello”.

I protagonisti di questo impegno li potremmo racchiudere in un termine: i volontari. Sono molti più di quanto pensiamo. Qualcuno ha osservato che i volontari non sono remunerati, non perché non valgono nulla ma perché sono inestimabili.

Le persone potranno dimenticare ciò che hai detto o ciò che hai fatto per loro, ma non dimenticheranno come le hai fatte sentire.  Madre Teresa di Calcutta diceva: “Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano”.

Kahlil Gibran ha una bellissima osservazione sul rapporto con il prossimo:

Il tuo prossimo è lo sconosciuto che è in te, reso visibile.

Il suo volto si riflette nelle acque tranquille,

e in quelle acque, se osservi bene, scorgerai il tuo stesso volto.

Se tenderai l’orecchio nella notte, è lui che sentirai parlare,

e le sue parole saranno i battiti del tuo stesso cuore.

Non sei tu solo ad essere te stesso.

Sei presente nelle azioni degli altri uomini,

e questi, senza saperlo, sono con te in ognuno dei tuoi giorni.

Non precipiteranno se tu non precipiterai con loro,

e non si rialzeranno se tu non ti rialzerai.

Non dobbiamo cercare il prossimo fuori di noi, perché è già dentro di noi. Non limitarti a chiederti: “Chi sono gli altri per essere aiutati?”. Chiediti invece: “Chi sono io per non aiutarli?”.  Non chiederti: “Perché io?”. Disimpegno, indifferenza, egoismo ci stanno soffocando. Segui questo racconto.

Questa è la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. C’era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo fece. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.

LA PARABOLA DEGLI ANIMALI

Il prossimo autunno, quando vedrete le oche selvatiche puntare verso Sud per l’inverno in formazione di volo a “V”, sarete sorpresi di come tra gli animali ci sia una solidarietà che a volte non si riesce ad avere tra gli umani.

Ciascun uccello della formazione, sbattendo le ali, crea una spinta dal basso verso l’alto per l’uccello subito dietro. Volando in formazione a “V”, l’intero stormo aumenta l’autonomia di volo di almeno il 71% rispetto a un uccello che volasse da solo. Coloro che condividono una direzione comune e un senso di comunità arrivano dove vogliono andare più rapidamente e facilmente, perché viaggiano sulla spinta l’uno dell’altro. Quando un’oca si stacca dalla formazione, avverte improvvisamente la resistenza aerodinamica nel cercare di volare da sola, e rapidamente si rimette in formazione per sfruttare la potenza di sollevamento dell’oca davanti.

Se avremo altrettanto buon senso di una di queste oche, rimarremo in formazione con coloro che procedono nella nostra stessa direzione. Quando la prima oca si stanca, si sposta lateralmente e un’altra oca prende il suo posto alla guida. È sensato fare a turno nei lavori esigenti, che si tratti di persone o di oche in volo verso Sud. Le oche gridano da dietro per incoraggiare quelle davanti a mantenere la velocità. Quali messaggi mandiamo noi quando ci limitiamo a patetiche parole consolatorie?

Infine (e questo è importante), quando un’oca si ammala o viene ferita da un colpo di fucile ed esce dalla formazione, altre due oche ne escono insieme a lei e la seguono per prestare aiuto e protezione. Rimangono con l’oca caduta finché non è in grado di volare oppure finché muore; e soltanto allora si lanciano per conto loro, oppure con un’altra formazione, per raggiungere di nuovo il loro gruppo.

Tiriamo la conclusione più logica: noi non ci salviamo da soli, ma unicamente in “formazione”. Questo è anche lo stile di Dio che ha voluto un’umanità come famiglia, ha voluto un popolo come interlocutore e come tramite del suo progetto, ha voluto una chiesa (assemblea, popolo) come luogo di salvezza.

E SE DIO SI FA “SAMARITANO” …?

Una delle parabole più belle e più attuali è quella del Samaritano (Lc 10,29-36). Per non perdere nulla del profumo di questa parabola la riportiamo e la rileggiamo: Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30 Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37 Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

Nel racconto c’è il dissolversi di un personaggio nell’altro, quasi una sovraimpressione progressiva. Il dottore della legge e il sacerdote e anche tutti gli uditori sono chiamati a identificarsi coll’uomo mezzo morto, di cui si fa carico il “samaritano” che faceva “la medesima strada” e che scompare all’orizzonte verso Gerusalemme dopo aver soccorso e salvato il malcapitato. L’uomo guarito ora, a sua volta, potrà anche lui accogliere e prendersi cura di tutti i mezzi morti in cui si imbatterà.

LA STRADA DA GERUSALEMME A GERICO

Fatta la premessa proviamo anche noi a seguire il percorso del viandante incappato nei briganti. Magari riconosceremo situazioni che ci riguardano da vicino. Seguiamo il percorso della esegesi (tirare fuori il massimo di ciò che contiene).

«Ma quegli (l’esperto della legge), volendo giustificarsi …». La Legge è giusta e vuole render giusti, ma purtroppo non è in grado di rendere giusti e si limita ad accusare chi, conoscendola, la trasgredisce. Due sono le possibilità per questo esperto della legge: o giustificarsi o essere giustificato da Dio. Costui sceglie la prima (“volendo giustificarsi”) ma Gesù lo condurrà progressivamente alla seconda (giustificati da Dio). Ed ecco il percorso su cui Gesù lo conduce:

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico». Non ha un nome, un’età, una qualifica sociale … non si dice di quale razza sia, di quale religione. È un uomo, ogni uomo. È il cammino di Adamo (di ogni Adamo) che va lontano da Dio, come il primo Adamo dopo il peccato, come il “figlio prodigo” che se ne va da casa, troncando i legami su cui si reggeva la sua vita. L’esito saranno le carrube da contendere con i porci. Ma mentre l’uomo è in fuga, Dio si fa pellegrino ripercorrendo, ma in senso inverso, la stessa strada. Quanti anche oggi voltano le spalle a Dio sorgente e garante della vita per cercare nelle discariche della nostra società qualcosa per sopravvivere!

«… incappò nei briganti …». Per briganti si intendono qui tutte le iniziative del maligno in cui l’uomo può finire come in altrettante trappole.

«… spogliatolo lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto …». L’uomo che stravolge l’immagine di Dio perde anche la propria immagine; rimane “nudo”, privo della dignità di figlio con cui Dio lo aveva rivestito. L’uomo che ha perso la propria dignità è vulnerabile, è preda di ogni aggressione … è già mezzo morto. Anche oggi quanti uomini, derubati dei loro progetti, della loro dignità, del loro futuro … vengono buttati ai margini della vita come ruderi umani, come esseri inutili.

«Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada … Anche un levita, giunto in quel luogo…». Sono i gestori e i custodi della religione e la religione ha lo scopo di far incontrare l’uomo con Dio. Tante sono le religioni, tanti sono i tentativi umani di raggiungere Dio. Sia il sacerdote che il levita non entrano in contatto con il malcapitato: vedono e “passano oltre”. La religione ci fa conoscere la legge ma non ci dà la forza per osservarla. Questa osservazione non è mia ma del più grande interprete del messaggio di Gesù, Paolo di Tarso: «Senza la legge infatti il peccato è morto (…) Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte» (Rm 7,9-10s). Quel “passare oltre” del sacerdote e del levita è l’ammissione della loro incapacità a salvare il malcapitato.

«Invece un Samaritano, che era in viaggio … lo vide e n’ebbe compassione». Samaritano (semplicemente “Samaritano” e non “il buon Samaritano”) è l’uomo contestato e rifiutato dalla religione ufficiale. Rappresenta quella parte degli Israeliti che ha abbandonato la tradizione comune. Nell’episodio della Samaritana (Gv 4) è detto a chiare lettere quale insanabile divisione esisteva tra le due tradizioni («I Giudei, infatti, non mantengono buone relazioni con i Samaritani» Gv 4,9). Il Samaritano è il Dio che scende sulla strada degli smarriti e dei perduti, è l’Emmanuele (“immanu – el” in ebraico significa “Dio con noi”).  Ma a questo punto, il comportamento del Samaritano fa saltare la secolare divisione. Inizia un rituale che è come una danza, la danza dell’agàpe (l’amore con cui Dio ama le sue creature). Una danza fatta di otto passi. Osserviamoli:

«lo vide …». Anche il sacerdote e il levita hanno visto ma non è successo nulla. Qui invece è come l’occhio del Dio di cui parla l’Esodo: Dio «vide» la miseria del suo popolo, «conobbe» i suoi dolori e «scese» per liberarlo (Es 3,7ss). Anche noi vediamo tante sofferenze, anche noi incontriamo spesso sulla nostra strada gli sconfitti della vita … ma, per lo più, tutto si ferma ad uno sguardo o ad una emozione.

«si commosse». È la caratteristica fondamentale di Dio: si commuove (e qui usa il verbo splaghnìzo che indica la sofferenza intima di una madre per il dolore del figlio). Il viaggio del samaritano la missione di Gesù è la compassione stessa di Dio per i suoi figli. L’occhio e il cuore del Padre sono gli stessi del Samaritano, immagine del Figlio che dona la sua vita per i fratelli.

«avvicinatosi» (letteralmente: «fattosi avanti»). Dio si fa avanti: si candida nostro prossimo, vuol restarci vicino nel nostro male. Fa il contrario del sacerdote e del levita. Se il figlio si perde, il padre va a cercarlo. Il farsi vicino è una decisione del cuore buono. L’occhio egoista vede e cambia strada; l’occhio buono vede e si avvicina.

«fasciò le sue ferite». Attraverso le ferite si perde il sangue, sfugge la vita all’uomo. La vicinanza e il tocco della carne del Samaritano (Gesù) rimarginano la ferita mortale dell’uomo.

«versando sopra olio e vino». Gesù ci cura con vino e olio («il vino che rallegra il cuore dell’uomo, l’olio che gli fa splendere il volto» secondo il Salmo 104,15). Luca pone in stretta connessione ascolto della Parola e guarigione (6,18). Come il male viene dall’ascolto della menzogna, così la salvezza dall’ascolto della verità. Quest’olio è anche l’unzione della sua umanità che guarisce la nostra disumanità. Il vino è il dono del suo Spirito, l’ebbrezza della nuova vita di figli.

«caricatolo sul suo giumento». La parola greca «ìdion» più che “giumento” indica “proprietà, bene acquistato”. Gesù, il Samaritano, da ricco che era si è fatto povero, per acquistare un corpo su cui caricare il peso della nostra miseria e arricchirci con la sua povertà (2Cor 8,9). Questo «giumento» è l’umanità di Gesù, la sua miseria di povero e di servo (9,48; 22,27). La sua umanità, nuda e ferita a morte, si è caricata di ogni nostra spogliazione e percossa. La croce di Gesù è il luogo in cui Dio si fa prossimo a noi, nella nostra stessa maledizione. Noi la meritiamo e non la vogliamo; lui non la merita, ma la vuole per starci vicino. Spesso noi ci scusiamo dal non farci prossimo a chi è in difficoltà perché non abbiamo mezzi a sufficienza per intervenire, mentre ci è chiesto solo di farci carico.

«lo portò alla locanda». Il termine greco pandocheîon (tradotto con “locanda”) significa letteralmente “tutti accoglie”. Questa locanda è figura della comunità dei discepoli che «accoglie tutti», è figura di Gesù che, nel suo cammino a Gerusalemme, raccoglie e ospita tutti gli esclusi dalla Legge e dalla vita. In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal samaritano. In essa, accogliendo il fratello che è nel bisogno, si accoglie colui che si è fatto piccolissimo, schiacciato da tutta la debolezza del mondo. Nel fratello bisognoso si accoglie il proprio Signore generoso. Nessun male fatto escluderà mai dall’accoglienza. Nella croce del Figlio ha già trovato rifugio tutto il male del mondo. Ogni miseria sarà solo misura della misericordia.

«e si prese cura». Il verbo esprime, nella sua forma greca (aoristo), la cura che Gesù si è accollato nel tempo determinato della sua vita terrena. Dopo di lui, e come lui, faranno nel suo nome quelli che da lui sono stati curati: diventeranno «albergatori», ossia “tutti accoglienti” (vedi Paolo in At 28,30s). Dell’apostolo Paolo si dice: «E Paolo rimase due anni interi in una casa da lui presa in affitto, e riceveva tutti quelli che venivano a trovarlo, proclamando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signore Gesù Cristo …».

«E chi è il mio prossimo?» aveva chiesto come giustificazione l’esperto della legge. I1 prossimo è colui che bisogna amare come se stessi. Nella parabola è colui che mi ama più di se stesso: è il Signore. Beati quindi gli occhi che vedono il Samaritano, e riconoscono in lui la tenerezza di Dio!

«Chi fece misericordia». «Far misericordia», sintesi di tutta l’azione storica di Dio verso l’uomo (cf. Sal 136 dove si ripete infinite volte «perché eterna è la sua misericordia»); è il senso della missione di Gesù. Egli infatti «passò benedicendo e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Con lui è scesa sulla terra la misericordia stessa del Padre. Vicino a ogni uomo che scende da Gerusalemme c’è ormai uno che vede e usa misericordia.

«Va’, e anche tu fa’ lo stesso». Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16). Questo ci fa uomini nuovi, capaci di metterci in cammino («va’») e di compiere la sua stessa missione («fa’ lo stesso»). Durerà fino alla fine del tempo, quando tutti i fratelli saranno portati nel pandocheîon. Allora sarà il ritorno in gloria del Figlio, ancora perduto e da ritrovare tra gli ultimi fratelli perduti. Egli infatti è il primo che si è fatto ultimo di tutti, l’unico che non volle restare solo, per essere il primogenito tra numerosi fratelli (Rm 8,29).

Anche il dottore della legge, che ha chiesto: «Chi è il mio prossimo?» (alias: a me chi è vicino?), ora conosce la risposta. Vicino a lui, mezzo morto sulla strada che scende da Gerusalemme, c’è sempre qualcuno che lo aspetta.

Come Paolo, può vedere in lui la compassione di Dio che lo porta al pandocheîon. Da lì può partire e fare altrettanto, dando ciò che lui stesso ha ricevuto. I vari personaggi del racconto, anche i più disparati, alla fine sono le mille sfaccettature di un unico volto bellissimo e misterioso: quello del Figlio che è lo stesso del Padre. Dio è realmente tutto in tutti attraverso la misericordia. Il rapporto Chiesa mondo è definito da queste parole di Gesù che invia la Chiesa a continuare la sua stessa missione di Samaritano: «Va’, e anche tu fa’ lo stesso».

Un Piccolo Salmo per il Sogno di Dio (Sal. 133)

Dopo la battaglia di Gelboe, nella quale morirono il re Saul e suo figlio, David intonò questo lamento: «O monti di Gelboe non più rugiada né pioggia su di voi, né campi di primizie, perché qui fu avvilito lo scudo degli eroi… – Saul e Gionata, amabili e gentili, nè in vita nè in morte furono divisi; erano più veloci delle aquile, più forti dei leoni… – Gionata, per la tua morte sento dolore; l’angoscia mi stringe per te, fratello mio Gionata! la tua amicizia era per me preziosa più che amore di donna» (2Samuele 1,17-26).

Perché le vicende sono andate così? Non sarebbe stato più bello vivere in armonia? È quanto ci augureremmo anche oggi, che un po’ di amore sciolga i nodi delle divisioni.

Salmo 133

Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!

È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste.

È come la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion. Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre.

Nel testamento che Gesù fece nell’ultima sera della sua vita disse: «Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, dall’amore che avrete a vicenda» (Gv 13,35). Non dai digiuni, non dai miracoli, non dalle grandi opere … saremo riconosciuti suoi discepoli.

È Il tema del Sal 133. La doppia simbologia dell’olio prezioso, usato nella consacrazione dei sacerdoti (nel Salmo è citato Aronne, fondatore del sacerdozio ebraico). Quest’olio penetra nel corpo e nelle vesti: santifica e trasformando la persona. Il secondo simbolo è la rugiada dell’Ermon, un monte settentrionale della Palestina (2760 metri). È un’immagine di freschezza in un ambiente solitamente bruciato dal sole. Si tratta di una iperbole per dire che questa rugiada è come un’ondata di fresco che dal nord della Palestina scende sull’arida Gerusalemme. L’amore fraterno è la freschezza della vita in un mondo solitamente arido e quindi, fonte di santità e di vita in un mondo dissacrato e morto.

«Ecco, com’è bello e com’è dolce / che i fratelli vivano insieme!». È “bello” e “dolce” che i fratelli vivano insieme! La precedente versione della Bibbia diceva che è “buono” e “soave” vivere insieme. Uniamo i quattro aggettivi insieme “bello, dolce, buono e soave, e sentiamo come è ricco questo messaggio.

Forse non è né necessario né dovuto che i fratelli “vivano insieme”; ma com’è tutto molto triste e difficile quando questo non si dà! E mi piace sottolineare che il termine italiano “insieme” è reso, nella versione latina, con «in uno», e con «in unum» nella traduzione dal testo greco: tale comunione fraterna è stabile e sempre in crescita.

«Come olio prezioso versato sul capo (…) e la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion». Due immagini poetiche di straordinaria bellezza. La prima dice “unzione sacerdotale”: l’olio consacratorio che scende sul capo, sulla barba (era segno di virilità) e sul vestito (segno di dignità). La seconda, “La fresca rugiada del monte Ermon (vetta innevata al confine settentrionale della Terra Santa, alto 2760 metri), si diffonda e inondi miracolosamente tutta la terra di Israele, sui monti di Sion” (bruciati dalla calura) dice che anche la creazione è accolta in questa consacrazione. Le due “immagini” esprimono efficacemente il crescere e il dilatarsi della comunione fraterna. nella persona e nella vicenda di chi ha ricevuto tale meraviglioso dono. Per l’autore del Salmo l’unione dei fratelli è come quell’olio: profumato, fragrante, sigillo di un momento solenne. Come quell’olio servì a consacrare Aronne, così l’unione dei fratelli, l’armonia, l’amore tra di loro è il sigillo della loro consacrazione a Dio. Dunque un dono, quello della comunione fraterna, che colloca in un’esistenza assolutamente privilegiata e vicina alla vita stessa di Dio.

La fraternità che Dio suscita in chi fa esperienza di lui, nel tempio, dissolve ogni conflittualità e tutti, con le loro diversità, formano la comunità ideale.

Non possiamo non ricordare che Luca, negli Atti degli Apostoli, ci presenta la prima Comunità cristiana come «un cuore solo e un’anima sola» (At 2,42-46). Sono questi che benedicono il Signore; ove c’è discordia, infatti, non si è in grado di benedire”.

«Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre».

Il teologo e pastore protestante , morto martire nel campo di concentramento di Flossenburg nell’aprile del 1945, Dietrich Bonhoeffer, in “La vita comune”, partendo dal Sal 133,1, afferma che l’attuazione ecumenica della fraternità cristiana ha un valore escatologico: “Se, nel periodo che intercorre tra la morte di Cristo e il giudizio universale, ci sono cristiani che, già qui possono vivere insieme con altri cristiani in una comunità visibile, questa è solo un’anticipazione concessa per grazia di Dio … Perciò, chi fino ad ora può godere di una vita cristiana insieme con altri cristiani, glorifichi la grazia di Dio dal più profondo del suo cuore e ringrazi Dio e riconosca che è grazia, null’altro che grazia se oggi ancora possiamo vivere in comunione con fratelli cristiani”.

Il Salmo termina con un’altra dichiarazione, parallela a quella di apertura: “Là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre”. E’ l’ideale suggello al canto dell’amore fraterno, visto come una benedizione divina. Quando siamo uniti nella carità, nella fede comune e nella liturgia sembra quasi che la Gerusalemme terrena ceda il passo alla Gerusalemme celeste dove non ci saranno più né lacrime, né guerre, né odi, né lutti, né morte (Ap 21,4) e dove “una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9) canterà in sintonia un unico inno di lode e di gioia.

A questo punto possiamo chiederci: “Non è forse la comunione fraterna il dono più bello, buono e piacevole, che Dio ci ha fatto?”. Il sangue, la razza … da soli non contano niente. Possono essere una trincea di oscuri istinti, di interessi a volte mortali. Solo l’amicizia ha il divino potere di superare il sangue, il censo, la classe, la razza, e fare che due esseri veramente si amino, confortati dalla stima dell’uno per l’altro, rinunciando a prevalere l’uno sull’altro, e a far posto l’uno all’altro.

Progettiamo di emigrare da pianeta a pianeta, ma siamo sempre più soli, trincerati nel bunker dei nostri egoismi, con il cuore sempre più freddo. Siamo tutti dentro a un sistema nel quale l’uomo conta sempre di meno, in un progresso che riguarda sempre meno lui.

Essere fratelli, vivere insieme, in un‘epoca segnata più che mai dall’individualismo, è sempre più difficile, più raro, ma per questo anche sempre più prezioso.

Questo breve Salmo (è uno dei “canti dei pellegrinaggi”) ci riporta a quei periodi dell’anno in cui le famiglie da ogni parte di Israele si mettevano in viaggio per andare nella grande città, Gerusalemme, in occasione delle feste principali prescritte dalla legge (Azzimi/pasqua, Pentecoste e Festa delle capanne).

Erano giorni in cui ci si rallegrava insieme, adorando il Signore, ricordando i momenti principali della propria storia e ringraziando il Signore per le benedizioni del raccolto. Erano infatti contemporaneamente rievocazioni storiche e feste agricole.

Chissà, forse proprio mentre viveva e osservava uno di questi momenti, Davide ha composto questo Salmo. Le feste che il Signore aveva prescritto per Israele, lungi dall’essere un semplice obbligo da rispettare, erano un dono di Dio. Quei pellegrinaggi potevano essere definiti “buono e piacevole”, qualcosa che donava gioia alla vita di tutti coloro che vi partecipavano.

Ed è proprio lì, in Sion, mentre i pellegrini si trovano lontano dalle loro case, in quei momenti di comunione allo stesso tempo solenni e gioiosi, che il Signore benedice il popolo di Israele di generazione in generazione, garantendo la preservazione eterna (vita eterna) del suo popolo.

CONCLUSIONE

Nonostante il contesto squisitamente ebraico, non può sfuggire che queste parole trovino applicazione anche nella nostra vita cristiana. In Cristo, infatti, abbiamo ricevuto la dignità di essere figli di Dio, siamo suo popolo e siamo fratelli di coloro che condividono la stessa sorte. Possiamo anche noi dire: «Ecco quant’è buono e quant’è piacevole che i fratelli vivano insieme!».

I nostri incontri non dovrebbero forse essere delle feste? Non dovrebbero essere allo stesso tempo solenni ma anche pieni di gioia?

Purtroppo, i momenti di incontro sono spesso vissuti, dai cristiani odierni, all’ombra della liturgia e dell’abitudine, quando potrebbero essere davvero come un olio fragrante che sigilla la nostra consacrazione al Signore e una rugiada che rinfresca e rende fertile la nostra vita come popolo di Dio.