Il valore del possesso è uno dei postulati di tutti i tempi: “Chi più ha meglio sta”. Allora: “Beati nella misura di quello che possediamo?” Analizzando più accuratamente scopriamo che non è esattamente così.  Perché?

Alla fine ci rimarrà quello che abbiamo donato.

La nostra società è composta fondamentalmente da due categorie di persone: quelle che sono ricche e quelle che vogliono diventarlo. Quando uno nasce si trova già collocato in una delle due e comincia la sua corsa contro il tempo: raggiungere la ricchezza o difendere e accrescere quella che ha. Solo alcuni “grandi uomini” hanno avuto il coraggio di prendere le distanze da questa frenesia del possedere; tra loro Gesù di Nazareth. È stato lui l’unico che ha dato una ragione convincente: «Beati quelli che hanno lo spirito da poveri, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3).

Quando a dire “Beati i poveri!” è uno che sta bene, che non ha mai conosciuto i rigori e le ristrettezze della povertà, l’annuncio è poco credibile; peggio ancora se si tratta di qualcuno cui fa comodo che i poveri continuino a rimanere tali. Cristo non si è limitato a benedire i poveri: ne ha condiviso le sorti: «…da ricco che era si è fatto povero» (2Cor 8,9). Liberamente ha deciso di farsi povero per arricchire noi e ci ha rivelato un Dio che è il più ricco di tutti non perché possiede tutto ma perché dà tutto.

Gesù è povero in senso economico (figlio di un carpentiere, non ha una pietra su cui posare il capo, non frequenta le scuole degli scribi); è povero nel senso dello Spirito (sua sicurezza di vita è il Padre; esiste per lui e gli restituisce, morendo, quella vita che da lui ha ricevuto; si occupa talmente delle cose del Regno da lasciare al Padre ogni cura di lui; non ha né casa né beni, né appoggi; fa della volontà del Padre il suo cibo e nel momento della croce a lui consegna la sua vita totalmente.

L’indigenza non è creata da Dio né da lui voluta; è il frutto della grettezza e della cupidigia umana; nasce da false beatitudini (beati quelli che possiedono… quelli che possono permettersi… quelli che dispongono…). Dio ha fatto la terra per farne dono all’uomo: ogni uomo, ogni popolo debbono poterne usufruire. Accaparramento, speculazione, accumulo… sono contro il disegno di Dio. Le cose sono benedizione di Dio quando vengono condivise. Dove prima c’erano dei fratelli ora ci sono dei proprietari diffidenti. Dalla cupidigia del possesso sono nate tutte le guerre e le disastrose conseguenze che esse hanno prodotto.

Il rapporto con le cose è fondato spesso sul criterio dell’accumulo: uno è tanto più beato quanto più possiede. In un grande banchetto, quello che conta non è quello che abbiamo imbandito, bensì quello che di fatto mangiamo. E il vero buongustaio del banchetto della vita non è quello che mangia di più, ma quello che gusta di più quello che mangia. Cupidigia e bramosia non sono segno di sano appetito, ma di patologia, di fame nevrotica da ansia. A conferma vediamo alcuni episodi evangelici.

LA VEDOVA POVERA E I SUOI DUE SPICCIOLI (Lc 21,1-4)

«Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. 2 Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli 3 e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti.4 Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere».

C’era un luogo nel tempio dove i pii Israeliti portavano il loro obolo: il tesoro del Tempio. Tredici piccoli forzieri che accoglievano le offerte dei fedeli. Gesù era seduto davanti al sacerdote che controllava la validità della moneta (moneta ebraica senza immagini incise) e dichiarava a voce alta l’entità dell’offerta perché la gente sentisse. Un luogo quindi dove il denaro è proclamato, benedetto, invidiato, esibito. Tutti sono presi e meravigliati per le grosse offerte, Gesù invece nota tra la folla una vedova povera, sola, senza grandi mezzi. Nessuno la nota. «L’uomo guarda le apparenze, Dio guarda il cuore» (1Sam 16,7); allora il denaro si dissolve, è pura apparenza; il vero tesoro è la persona, il suo cuore. Questa donna è un povero che non chiede nulla per sé, ma è capace di dare tutto.

Tutti danno del loro superfluo, di quello che a loro cresce, il loro benessere rimane comunque intatto; questa donna dà quello che le è necessario per vivere e ora le rimane solo Dio. Ma chi ha il coraggio di dare tutto non si meraviglierà di ricevere tutto. Beati i poveri a cui non è rimasto più nulla da dare se non se stessi: il cuore del Padre sarà il loro patrimonio.

Ciò che conta non è la quantità di denaro che si dona, ma quanto amore vi si è messo dentro. Talvolta il Vangelo può essere racchiuso in un bicchiere di acqua fresca dato per amore o in due spiccioli dati con un grande cuore. Gesù ricorre alla formula più forte del suo insegnamento per avvalorare quanto ha detto: «In verità vi dico questa donna ha dato più di tutti». È come se volesse dare in prestito i suoi occhi ai discepoli ancora affascinati dalle grandi offerte dei ricchi, perché potessero capire che la più grande offerta era quella della vedova.

“Amare Dio con tutto il cuore” come dice la Legge significa dare tutto senza riserve per dover poi contare completamente sulla gratuità di Dio. In realtà non abbiamo dato nulla finché non abbiamo dato tutto. Gesù ha capito il cuore della vedova povera perché anch’egli era così, anch’egli ha dato tutto, anche la vita. Noi quando diamo un po’ di denaro, diamo quello che non ci è indispensabile, quando diamo un po’ di tempo diamo quello che ci cresce; quando diamo delle nostre disponibilità è quando le abbiamo già utilizzate. Dio è il più ricco di tutti perché ha dato tutto a tutti.

IL RICCO INSENSATO (Lc 12,13-21)

Quando la ricchezza diventa una trappola

«Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: – O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi? E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni -.

Disse poi una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto.

Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?

E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: – Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».

Il brano è all’interno del «lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme» (cap. 9- 19), dove Gesù offrirà la sua vita. Il discepolo, che percorre con Gesù questa via, apprende un modo nuovo di vedere e di vivere la vita.

«Uno della folla…» Non ha nome, né età, né volto: è uno che vale per molti, di ogni tempo e cultura. Può essere ciascuno di noi che sia preda della cupidigia.

«Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità …». Succede spesso che fratelli e sorelle, nati dallo stesso grembo, si vogliano bene fino al giorno in cui sono chiamati a dividere l’eredità. Allora può capitare che non siano loro a dividere l’eredità, ma è l’eredità che divide loro.

«Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni …». Gesù non sembra voler risolvere il problema che gli avevano posto, ma andare alla radice del male, di cui l’episodio era solo la punta dell’iceberg.

I beni di questo mondo Dio li ha destinati a tutti. Chi li accumula per sé, chi se ne accaparra più di quanto ne ha bisogno, senza pensare agli altri, stravolge il progetto del Creatore. L’uomo non è proprietario, bensì gestore usufruttuario di ciò che ha ricevuto. L’eredità alla quale egli si interessa è il Regno, che verrà “ereditato” da coloro che hanno lo spirito da poveri (Mt 5,5).

Protagonisti della parabola sono solo tre: Dio, l’uomo ricco e… i beni.

Quest’uomo – ci chiediamo – non ha famiglia, moglie, figli? Non ha vicini di casa? Amici? Certo che li ha. Vive in mezzo alla gente, ma non la vede; per le persone non ha tempo, non ha energie da impiegare, non ha pensieri, non ha parole, non ha sentimenti. Pensa ai raccolti, ai magazzini, al grano. Nella sua mente non c’è posto per altro. I beni sono l’idolo che gli hanno creato il vuoto attorno, che hanno disumanizzato tutto. Non è più un uomo, è una macchina che produce e fa calcoli, è un registratore di conti. È uno zombie.

Consideriamo il suo monologo: usa cinquantanove parole, di esse ben quattordici sono riferite a “io” e “mio”… Tutto è suo; esistono solo lui e i suoi beni, ma lui non lo sa e continua a fare i suoi calcoli. E’ un po’ quello che succede anche a noi quando cominciamo ad essere dominati dalla bramosia del possedere.

Ma ecco comparire improvvisamente il terzo personaggio, Dio che, in quella stessa notte, gli chiede conto della vita. «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?». Chiedere conto non vuol dire aspettarlo al varco della morte, ma aprirgli gli occhi per fargli vedere le cose come stanno. Il giudizio di Dio è pesante: chi vive per accumulare beni è un folle! La ricchezza è dunque un male? Assolutamente no. Gesù non l’ha mai condannata, non ha mai invitato nessuno a gettarla via, ma ha messo in guardia dai seri pericoli che nasconde. La ricchezza è soprattutto un fatto del cuore: chi è attaccato tanto al poco che ha è ricco e schiavo delle cose che possiede.

La parabola conclude con un avvertimento di saggezza per tutti: «Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». Gesù non mette in guardia chi ha molti beni, ma chiunque accumula per sé. Si possono avere pochi soldi e avere il “cuore da ricchi”. Tutti devono tenere presente che i tesori di questo mondo sono infidi, non portano ad entrare in quel cielo nuovo e in quella nuova terra che sono iniziati con la vicenda di Gesù di Nazareth.