È ancora molto comune l’opinione che il peccato sia una trasgressione alle leggi stabilite dal Signore, che lo amareggiano e che ci attira i suoi castighi. Ma il peccato porta a un rischio ancora più grave.
Ripartiamo dagli inizi
Nella lingua della Bibbia “peccare” si dice con vari termini, ma il più ricorrente è ‘hattat, che ricorre 289 volte nel Primo Testamento e significa letteralmente “sbagliare bersaglio”. L’uomo è stato creato per la felicità. Lo diceva anche il nostro vecchio catechismo che siamo stati creati per un preciso scopo: conoscere e amare Dio in questa vita e goderlo poi per sempre nella vita definitiva.
Il giardino, che il Creatore ha voluto fare per l’uomo e che gli ha consegnato «perché lo coltivasse e lo custodisse» non è un luogo geografico, ma una situazione interiore dell’uomo stesso: è la felicità a cui Dio ci ha destinati. Questo giardino ha bisogno di essere custodito e coltivato. Qui si inserisce il compito affidato all’uomo: continuare l’opera del Creatore.
Il Creatore ha lasciato all’uomo piena libertà nella gestione delle cose che gli ha offerto; solo si è, però riservato di indicare, personalmente, all’uomo le vie per arrivare alla meta della felicità. Non tutte le vie portano ad essa e l’uomo, da solo, non è in grado di scegliere e corre rischi gravi quando si avventura senza una guida. L’albero del bene e del male è una bellissima immagine per indicare questa alternativa.
I limiti che il Creatore ha imposto erano un atto di amore per le creature a cui aveva dato il suo alito di vita. I progenitori non lo hanno capito, come non lo capiamo noi ora, che quella di Dio non era l’imposizione di un limite, ma una garanzia a difesa della libertà delle sue creature. Scelsero arbitrariamente di fare di loro iniziativa e l’esito immediato fu un’amara presa di coscienza della situazione in cui erano finiti: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7). “Nudi” significa senza la dignità (la veste) che avevano prima. La cintura di foglie di fico che si erano fatta era il patetico tentativo di rifarsi una dignità. La prima conseguenza fu la vergogna che li spinse lontano da Dio. Si era dunque aperta una via buia, che li avrebbe portati sempre più lontani.
L’uomo ha voluto contrapporre a quella di Dio la sua norma, quella del profitto, dell’accaparramento, dell’uso spregiudicato delle forze della natura, della legge del più forte. Anche il creato sta pagando le conseguenze di questa insensatezza.
Tutto finito? No. Dio, che ama la coppia, prima che escano dal giardino fa per i due un gesto delicatissimo: «Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì» (Gen 3,21). Dio non li lascia andare “nudi” con quella patetica cintura di foglie di fico, loro che prima avevano l’abito regale dei figli.
La storia di un amore
Per spiegarmi meglio provo a coniugare la nostra storia di oggi con la storia dell’Antico Israele. Nonostante l’irruzione del male il Creatore non smise di credere nella storia d’amore con la creatura alla quale aveva dato il suo alito. Iniziava così una ricerca: Dio e l’uomo si sono cercati a lungo poi Dio trovò la via per incontrarli A questo scopo Dio si scelse un popolo come interlocutore; attraverso di esso fece passare i suoi messaggi per tutti gli uomini.
Israele, rispetto a tutte le altre religioni antiche, introduce un’innovazione radicale a riguardo del peccato: non più inteso come sbaglio, come violazione di una norma … ma come interruzione di un dialogo con Dio, del rapporto amoroso con il Padre. La Rivelazione biblica per farci capire il peccato ci racconta la storia di un popolo e del suo Dio. È solo all’interno di questo rapporto che è possibile capire il senso biblico di peccato. È curioso che profeti di Israele chiamino il peccato “adulterio”, esattamente come in una storia di amore.
Nell’Alleanza del Sinai colpisce la determinazione di Dio contro un atteggiamento umano che forse noi sottovalutiamo, l’idolatria. «Non avrai altro Dio di fronte a me, perché io sono un Dio geloso». Parole messe come portale del Decalogo. Dio è geloso, non a difesa di sé, ma della creatura che ama. L’idolatria non è quella ingenua dei popoli primitivi e delle loro statuette di divinità, ma è quella che da noi, oggi, pone al posto di Dio carriera, successo, lavoro, salute, casa, figli, benessere … Sono tutti doni di Dio, ma non sono Dio. Pericoloso scambiare il dono con il Donatore. È qui che si annida la radice dei nostri peccati.
Il “tentatore” ci è stato presentato come un caprone disgustoso. Qualcuno ha detto che oggi, invece “il diavolo veste Prada”. Ha cambiato tattica: è simpatico, gentile … ma subdolo. È il lupo che si veste da agnello. Può presentarsi, anzi, con una patina di apparente religiosità. Tenta di entrare nelle nostre abitudini per guidarle. Il peccato consiste nell’interruzione del rapporto amoroso con Dio per aprire un rapporto nuovo con un “dio” costruito da noi.
Che cosa ci può salvare da questa tattica diabolica? Un rapporto vero, non formale con Dio. Israele è rimasto ancorato al ricordo dell’amore e della fedeltà che Jaweh gli aveva sempre dimostrato. La preghiera di Israele comincia sempre con queste parole: Shemà, Israel (ricorda Israele). È quanto anche noi possiamo e dobbiamo fare perché la nostra storia rimanga ancorata al progetto che Dio ha fatto per noi. Il card. Martini voleva che la confessione non cominciasse mai dai peccati, ma dal ricordo di quanto Egli ha fatto e fa per noi personalmente. I nostri peccati sono molto meno importanti. Questo ci manterrà nella linea giusta del perdono che sarà sempre “per dono” e non “per merito”.
Chiudo con un racconto vero che può richiamarci quello che fa Dio
La porta piccola è sempre aperta
Nella periferia di una grande città, in un gruppo di barboni, colpisce la presenza di un giovane. È malvestito, trascurato, ma soprattutto ha un’aria triste. Qualcosa di grave deve averlo fatto uscire di casa. Nei momenti di particolare crisi toglie dalla tasca un biglietto bisunto, lo apre, lo legge, lo bacia e lo ripone nella tasca. Quel biglietto è l’ultimo messaggio avuto da suo padre. Ci sono solo poche parole: “Ricorda che la porta piccola è sempre aperta!”.
Una sera si decide e torna a casa. La porta piccola è effettivamente aperta. Sale in punta di piedi nella sua cameretta e si distende sul letto. Il mattino, quando riapre gli occhi suo padre è accanto al letto; in silenzio si abbracciarono piangendo.